Attualità

Quando don Tonino sfidò le bombe di Sarajevo

Antonio Aiello
​Sono passati 25 anni da quel viaggio. In questi stessi giorni, nel 1992, l'amatissimo vescovo entrò nella città martoriata dalla guerra a capo di 500 pacifisti. Fu un segnale indimenticabile​
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Il 2018 sarà l’anno del 25esimo anniversario del “dies natalis” di don Tonino Bello, compianto vescovo della nostra diocesi. Ognuno di noi conserva nel proprio scrigno ricordi, frasi, piccoli gesti, quasi in ogni casa si trova una foto di don Tonino che ricorda il vescovo in “stola e grembiule” che, nei giovani di ieri, adulti di oggi, è stato un vescovo fratello, che con i suoi messaggi sapeva parlare alla gente.

In questi giorni, 25 anni fa, quattro mesi prima che morisse, don Tonino sfidò le bombe di Sarajevo per portare un germoglio di pace in quella terra martoriata, insieme ad altri 500 partecipanti, tra cui monsignor Bettazzi e don Albino Bizzotto, nonostante il “drago”, come lui lo definiva, lo distruggesse lentamente.

Fu un viaggio tormentato sin dalla partenza da Ancona sul traghetto Liburnja. I 500 pacifisti dovettero vedersela con le condizioni meteo marine avverse, tanto da impiegare più del previsto per giungere a Spalato.

L’11 dicembre successe il miracolo: quel popolo riuscì ad arrivare a Sarajevo e l’utopia di don Tonino divenne realtà. «Quest’esperienza – disse – è stata una specie di Onu rovesciata. Qui non è arrivata l’Onu dei potenti, ma l’Onu della base, dei poveri. L’Onu dei potenti può entrare a Sarajevo fino alle 16. L’Onu dei poveri si può permettere di entrare anche dopo le 19. Io penso che queste forme di utopia dobbiamo promuoverle, altrimenti le nostre comunità che cosa sono? Sono soltanto le notaie dello status quo e non le sentinelle profetiche che annunciano cieli nuovi e terra nuova. Io penso che noi dobbiamo puntare tutto su questo».

Fu un’esperienza che lo segnò, alla vigilia della 25esima marcia della pace che si svolse il 31 dicembre di quello stesso anno a Molfetta. Nel rilasciare un’intervista don Tonino rispose: «È un’esperienza che mi ha segnato l’anima. Mi sono portato cicatrici di dolore, ma anche fremiti di grande speranza. È stata un’esperienza un po’ folle e un po’ pazza, compiuta soprattutto da 500 persone, non da 10 o 50, da 500 persone tutte insieme. Siamo entrati nel cuore della guerra e abbiamo sperimentato che ci sono alternative ai processi di militarizzazione, alle logiche delle armi, alle logiche della violenza. Ci sono alternative, sono chiarissime soprattutto perché abbiamo visto noi, gente povera in mezzo ai poveri del posto, questo anelito che si sprigiona dalle profondità della città».

Alla domanda del giornalista se la guerra potesse essere evitata rispose: «Io penso che tutte le guerre possono essere evitate con una cosa soltanto. Davvero, forse sembrerà utopica a tutti quelli che mi ascoltano, sorrideranno di questa mia ingenuità. Io credo che si potrebbero evitare le guerre se tutti gli uomini fossero capaci di fare un grande pellegrinaggio non verso Sarajevo, verso Mogadiscio, ma un pellegrinaggio che vada dalla periferia del nostro essere e del nostro vissuto, cosi lacerati, cosi contorti, cosi asfittici, cosi presi dall’affanno delle cose. Un percorso che vada da queste esteriorità fino al centro del nostro essere, del nostro io, della nostra persona, al profondo del cuore, del nostro vissuto, dove troviamo davvero il nido della pace, il santuario, purtroppo con i battenti quasi sempre chiusi. Il santuario all’interno del quale potremmo riscoprire la bellezza dei volti».

Quattro mesi dopo don Tonino sarebbe morto. In questi giorni invece regalò una pagina storica di pacifismo.

sabato 16 Dicembre 2017

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