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Giuseppe Caldarola: «Vaccinarsi è un diritto e un dovere. Si abbia fiducia nella scienza»

Veronique Fracchiolla
Veronique Fracchiolla
Di Ruvo di Puglia, architetto nonché docente all'Università Iuav di Venezia, è stato tra i primi a essere vaccinati nella fase di ripresa della campagna vaccinale con Astrazeneca, dopo le rassicurazioni dell'Ema
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Era lo scorso 15 marzo quando l’Agenzia italiana per il farmaco, a scopo cautelativo, sospendeva la somministrazione di Astrazeneca (il cui nome commerciale è diventato, da pochi giorni, Vaxzevria) in seguito alla denuncia di eventi avversi potenzialmente attribuibili al vaccino. Dopo tre giorni, Emer Cooke, direttrice dell’Ema (Agenzia Europea del farmaco), garantiva la sicurezza ed efficacia dello stesso, escludendo l’associazione fra i casi di trombosi e il vaccino.

Dopo l’ok dell'Aifa all’utilizzo di AstraZeneca, la campagna vaccinale riprendeva a partire dalle 15 del 19 marzo.

E in Italia, tra i primi a essere vaccinati in questa seconda fase è stato l’architetto ruvese Giuseppe Caldarola, docente all’Università Iuav di Venezia.

Ne abbiamo parlato con lui.

Qual è stato il suo stato d’animo?

«Francamente, non pensavo che la mia vaccinazione fosse di un qualche interesse o che potesse avere una qualche risonanza mediatica. E invece così è stato! 

Per un caso fortuito, sono stato infatti il primo al quale è stato somministrato il vaccino di AstraZeneca venerdì 19 marzo, dopo lo stop, le verifiche dell’Ema e il via libera dell’Aifa, ricevendolo proprio alle 15, cioè, all’ora fissata per la ripresa delle somministrazioni. Da qui, alla mia “semplice” vaccinazione è stato dato un risalto inatteso, divenendo uno dei “casi” esemplari della ripartenza della campagna vaccinale nel Veneto. In realtà, mi ero recato all’Ospedale dell’Angelo a Mestre, dove la Usll 3 Serenissima (l’azienda sanitaria avente competenza sul territorio di Venezia) ha destinato un apposito padiglione alle vaccinazioni, per chiedere informazioni: avevo la prenotazione alle 14.56 dello stesso giorno.

Come ho detto, giusto quattro minuti prima dell’orario della ripresa. In quel momento non sapevo se avrei ricevuto il vaccino o se, come capitato a molti colleghi nei giorni precedenti, mi sarebbe stata indicata un’altra data possibile: avevamo ricevuto tutti un messaggio al momento della sospensione della somministrazione di AstraZeneca per le verifiche, ma non ci era ancora stata comunicata la calendarizzazione del recupero delle tornate dei giorni precedenti. All’arrivo in ospedale, un breve scambio di battute con i responsabili del padiglione, le rassicurazioni del personale medico lì presente con cui mi si diceva che si era già pronti a ripartire con le vaccinazioni, l’invito a contattare rapidamente qualche collega (tra i "rimandati" dei giorni precedenti) in modo da contribuire a far circolare l’informativa della ripresa, qualche minuto in sala di attesa e sono stato accompagnato nella sala dedicata.

Il mio stato d’animo? Assoluta tranquillità all’arrivo in ospedale (del resto ero andato lì, in teoria, solo per ricevere informazioni); il dubbio di essere arrivato nel posto sbagliato dal momento che, in entrata, c’ero solo io con il personale del padiglione e alcuni giornalisti che attendevano la ripresa delle somministrazioni del vaccino; qualche remora o perplessità, indotta dalle informazioni circolate nei giorni precedenti, ma subito fugata e sostituita dalla convinzione di fare il vaccino; un po’ di tensione mentre venivo accompagnato nella sala delle vaccinazioni, accompagnata dalla convinzione che fosse cosa da farsi subito dopo; una sensazione di grande positività, a cose fatte, generata da fatto che il vaccino rappresentava un primo passo verso il ritorno alla normalità».  

Come si è svolta la procedura di vaccinazione?

«Avevo prenotato la vaccinazione dal sito dell’Usll, dove c’è una pagina dedicata alla campagna vaccinale (con link dedicati al personale scolastico e universitario, come anche alle altre categorie di utenti, ivi comprese, quelle per fasce d’età) con tutte le informazioni utili e i link al form online da compilare con i dati personali.

Ho potuto prenotare il vaccino in quanto appartenente al personale docente e, dunque, ho dovuto accedere alla sezione dedicata al personale scolastico e universitario. Altrimenti, avrei dovuto attendere che si aprisse il periodo delle chiamate per la fascia di popolazione dei quarantenni, in base all’età (in questa eventualità mi era stato prospettato un tempo di attesa fino a cavallo dell’estate). Sul sito dell’Usll si sceglie la sede tra quelle disponibili sul territorio di competenza dell’azienda sanitaria, una fascia oraria e una data all’interno di una rosa di giorni possibili, destinati alla vaccinazione della categoria di appartenenza.

Completato l’inserimento dei dati personali, ho ricevuto un messaggio e una mail di conferma con l’indicazione dell’orario preciso (il mio era 14.56) in cui avrei dovuto presentarmi con puntualità per la seduta vaccinale in modo da non creare troppa concentrazione di persone e garantire un’adeguata turnazione.

Come ho già anticipato, nell’Ospedale di Mestre c’è un apposito padiglione destinato alle vaccinazioni. Al suo interno, vi è allestita una sala d’attesa con poltroncine ben distanziate le une dalle altre. Lì si attende di essere chiamati. C’è un medico che fa da interfaccia prima con gli utenti e che accompagna nella sala vaccinazioni: lì il personale dedicato compila la scheda anamnestica e, espletate le formalità, si riceve la vaccinazione; a seguire, ci si sposta in un’altra sala dove si attende per monitorare eventuali reazioni per un tempo che varia da un quarto d’ora a qualche ora, a seconda di quanto si è dichiarato in fase di anamnesi e secondo le indicazioni del medico. Poi, il via libera!».

Come è stata accolta la vaccinazione antiCovid dai suoi colleghi?

«Non ho elementi sufficienti per risponderle in maniera esaustiva ma credo che la vaccinazione antiCovid sia stata accolta bene! In base alle disponibilità di date messe a disposizione dalle Usll di riferimento, pian piano, ci stiamo vaccinando. Per il segmento universitario – che è stato ricompreso nelle categorie speciali, insieme agli insegnanti e al personale delle scuole di ogni ordine e grado – la possibilità di ricevere il vaccino è stata aperta al personale docente e amministrativo oltre che ai collaboratori (le tante figure del precariato che ruotano intorno all’università italiana, ai dottorandi e agli assegnisti di ricerca. Mi sembra un bel segnale oltre che una chiara indicazione di fiducia nella scienza e di necessaria garanzia di continuità delle azioni di ricerca nei vari settori dei saperi scientifici. E mi sembra chiaro quanto necessario, soprattutto in questo momento, sia l’investimento nella ricerca e nella progressione della stessa».

Lei ritiene che vaccinarsi sia un dovere. Perché?

«Vero! Ritengo che vaccinarsi sia un dovere. È sicuramente un diritto e la possibilità di accedere al vaccino ci è garantita dallo Stato Italiano e dalla Comunità Europea. Noi tutti possiamo optare se accettare il vaccino o meno. Mi chiedo come rispondiamo a questa possibilità che ci viene data…

Ho visto e sentito tante volte e da tanti, troppi, dire che non avrebbero voluto vaccinarsi, che avrebbero atteso che si vaccinassero gli altri e si raggiungesse l’immunità per sentirsi più tranquilli. Questo mi sembra un atteggiamento passivo; di certo, non lo trovo un atteggiamento responsabile, degno di chi vuole dirsi cittadino attivo. Ma questo è un mio modestissimo parere!

Del resto, sarei tentato di domandare a chiunque… “abbiamo altre strade possibili? Abbiamo un altro modo di uscire dalla pandemia?”. Al momento, quella delle vaccinazioni sappiamo essere l’unica possibilità per proteggerci dai rischi di infettarci. Allora perché non aderirvi? Ho anch’io i miei dubbi, le mie eventuali paure. Ma ritengo siano poca cosa e che vadano superate attraverso una scelta responsabile: per proteggerci, per proteggere gli altri! Liberi tutti di fare le proprie scelte; ma non dimentichiamo il principio basilare che ci veniva insegnato a scuola durante le ore di educazione civica: la libertà personale finisce dove inizia quella degli altri! Allora, facciamo un piacere a noi stessi e agli altri, in ugual misura…vacciniamoci!».

Lei si è vaccinato anche per onorare il ricordo di suo zio, Michele Cicchelli, uno dei medici deceduti per Covid. Mi parli di lui.

«Credo che si capisca pienamente la gravità del rischio a cui ci si espone nel momento in cui si entra in contatto con la malattia. Purtroppo anche la mia, come tante altre, è una famiglia che è entrata in contatto col Covid. E lo ha fatto nella forma peggiore possibile, come se non lo fosse già abbastanza, con un tributo di una vita umana.

Anche per questo, al momento della vaccinazione, un pensiero è andato a mio zio, Michele Cicchelli, medico specializzato in pediatria che ha esercitato a Barletta e che purtroppo ha contratto il virus proprio durante l’esercizio della professione.

E dire che, l’ultima volta che ci eravamo visti a Barletta, mi aveva detto di non raggiungerlo in studio per non espormi a rischi; che mi aveva regalato dispositivi di protezione – mascherine e visiere, lui a me (non viceversa), laddove era lui in prima linea come l’intera categoria di medici e infermieri e personale sanitario tutto a fronteggiare l’emergenza – per potere entrare in aula in sicurezza per le lezioni dello scorso semestre; che anche in casa sua viveva in una specie di isolamento volontario, proprio per non esporre nessuno dei suoi a rischi… Il suo vestiario ed effetti personali, da lui stesso imbustati e lasciati in veranda, già parlano di accortezze speciali e di continui gesti d’amore e attenzioni speciali per i suoi familiari.

Già questi piccoligesti mi sembrano una traccia assai evidente, distintiva del tipo di persona che era il dott. Cicchelli. E dire che durante la lunga degenza in ospedale  – quasi una lenta agonia, troppo lunga e composta di ben 33 giorni trascorsi tra i reparti di malattie infettive, terapia sub-intensiva ed intensiva – aveva richiesto, con assoluta lucidità di pensiero, di farsi cavia e di sperimentare su di lui dall’uso del plasma iperimmune (a dicembre scorso, ancora di difficile reperimento in Puglia) agli anticorpi monoclonali. E, nel mentre, i suoi messaggi: “Sbrigatevi, che io sto morendo”.

Già questo la dice lunga…

È stato il 232° medico italiano ad aver contratto il virus, ammalarsi e a rimetterci la vita nel pieno svolgimento della professione durante la pandemia da Sars-CoV2. Era un medico “semplice”. E uso volutamente questo termine per descriverlo, nel suo senso migliore. Ugualmente “semplici” sono state le numerose attestazioni di affetto da parte di tutti coloro che con lui hanno condiviso brani di vita più o meno lunghi e continuativi.

Forse noi stessi di famiglia ne abbiamo capito meglio il valore proprio attraverso i numerosi i messaggi di stima e apprezzamento della capacità e della perizia che lui stesso poneva nell’esercizio della sua vita professionale e che sono arrivati dai tanti colleghi con i quali ha condiviso il suo percorso professionale e dai tanti suoi assistiti. Alcune di queste attestazioni hanno trovato spazio nelle pagine dei quotidiani nazionali e locali, nei portali online e nei profili social suoi personali e in quelli dei suoi familiari, sui necrologi comparsi in Barletta, sua città di adozione in cui viveva e lavorava, come in Minervino Murge, suo luogo natale. Contengono tutti insieme brevi tratti di una vita piena di significati, di passioni, di quotidianità trascorsa sempre in bilico tra gli affetti familiari e lo svolgimento del lavoro di medico. Raccontano di un’azione, quale pediatra di famiglia,che diveniva il prolungamento e la profusione di quell’altissimo livello di attenzioni e disponibilità che aveva verso i propri congiunti. Non credo di sbagliare dicendo che i suoi piccoli pazienti quasi li si potesse additare nel novero di una sua famiglia allargata.

È stato definito “un ottimo professionista, competente e paziente, appassionato del suo lavoro”; qualcuno lo ha chiamato “dottore scienziato”, a ricordare la sua spiccata e mai interrotta propensione a documentarsi, ad aggiornarsi. Ne è emerso una racconto pieno di vita, composto di pareri da lui dati, di terapie somministrate, di soluzioni di casi (anche difficili) che compongono la variegata aneddotica del quotidiano di un medico… e di un medico non di solo mestiere.

Credo che quella del dottor Michele Cicchelli sia una lezione di vita!

Non c’è carattere o preoccupazione personale che tenga. Si resta medici per sempre, quando la pratica dell’arte medica è fatta con passione e abnegazione. Si resta vivi, anche oltre i confini di un’esistenza spezzata prematuramente, quando si è in grado di toccare le corde più vive del cuore della gente, quando il rapporto medico-paziente diviene un segmento imprescindibile di vissuto personale. È forse questa la più chiara eredità che un buon medico può lasciare.

Secondo lei come procede la campagna vaccinale in Italia?

«Non credo che mi sia possibile o opportuno esprimermi in merito al piano vaccinale. Non ho gli elementi e le cognizioni sufficienti per poter fare una qualsiasi valutazione. Trovo che sia troppo facile cedere al mestiere del “tuttologo” che, soprattutto in questo periodo, sembra essere diventato una specie di sport nazionale. Del resto, abbiamo visto tutti quanto abbiamo inciso sulla campagna vaccinale i registri comunicativi utilizzati nella diffusione delle informazioni: l’effetto ottenuto è stato solo quello di alimentare paure e insicurezze, a tal punto da mettere a rischio l’intero meccanismo su tutto il territorio nazionale. Il rischio è dietro l’angolo: è quello di non fare informazione, piuttosto, di fare disinformazione! Di queste cose, lasciamo che a parlare siano gli esperti: chi le campagne vaccinali le sta ideando e gestendo; chi può dare indicazioni utili per il miglioramento delle procedure; chi può avere maggiore chiarezza dell’andamento epidemiologico e delle azioni di contenimento da intraprendere. Sono questioni mediche, dai medici ci andiamo tutti e vi riponiamo assoluta fiducia: perché non farlo anche in questa circostanza?».

Passiamo alla didattica, dal lockdown di marzo sino a ora: ci racconti la sua esperienza.

«Direi che abbiamo tutti cercato di garantire il più possibile un adeguato livello di servizio. Nella prima fase, ci siamo subito attivati per portare avanti le attività in corso attraverso le varie piattaforme telematiche (Skype, Zoom, Teams, ecc…). E tutto questo per superare rapidamente quel momento di vuoto che si era creato, di colpo, dal non poter raggiungere le aule e gli spazi universitari al non poter avere contatti diretti con gli studenti. In realtà, le università non sono mai state chiuse totalmente. Si è solo portata la didattica in remoto. Ho trovato un bel segnale la decisione del comitato dei rettori del Veneto di dare la priorità a riaprire le biblioteche nel più breve tempo possibile – ovviamente, con tutti gli accorgimenti e le misure di prevenzione del caso – al fine di mantenere un presidio di cultura sul territorio.

A marzo dello scorso anno, quando si è andati in lockdown, stavamo portando avanti i lavori del workshop internazionale di progettazione “Laboratori Metropolitani” che si era svolto in Cina a dicembre 2019.

Ebbene sì, con il prof. Aldo Aymonino, con cui lavoro, e un gruppo di una decina di studenti eravamo proprio in Cina (nella totale inconsapevolezza di quanto stava accadendo) nel momento di massima diffusione dei contagi: siamo stati lì per due settimane; siamo rientrati in Italia il 17 dicembre; dodici giorni dopo, il 29 dicembre, l’Oms – Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato la Pandemia).

Tra l’altro, a cavallo tra i mesi di aprile e maggio 2019, eravamo stati proprio a Wuhan per un altro laboratorio di progettazione internazionale. Mai avremmo pensato che, di lì a pochi mesi, quella che era una regione della Cina sconosciuta ai più sarebbe diventata per così dire il “centro” del mondo, balzando agli onori della cronaca internazionale e con immagini che ben si discostavano dalla città che avevamo visitato e attraversato. Devo dire che, nel giro di poco, si è interrotta la tranquillità con cui si erano affrontate fin lì le cose. Abbiamo anche considerato la possibilità di essere noi i “pazienti 0”, fortunatamente fugata dalle verifiche mediche. Anche per questo, prima dicevo di aver fiducia nella scienza e di lasciar parlare chi ha competenza in materia!

Le racconto un aneddoto a questo proposito. Come ricorderà, i primi casi di febbraio 2020 si erano verificati a Codogno in Lombardia e a Vò Euganeo in Veneto. Poi c’era stato il primo decesso veneto di un anziano di Mira nel veneziano. Noi eravamo rientrati dalla Cina e avevamo avuto tutti, a rotazione, sintomi parainfluenzali con bronchite e febbre. Si cominciava appena a parlare di tamponi, peraltro difficilissimi da avere, e non vi erano altri esami specifici da poter fare (i test sierologici che si sono approntati solo tempo dopo).

Parlandone con mia madre, primario di Laboratorio analisi in quiescenza, mi ha dato subito l’indicazione di richiedere in ospedale gli esami del sangue routinari, comprese le immunoglobuline: praticamente un test sierologico ante litteram, per fugare ogni dubbio sulla possibilità di aver contratto il Covid durante le attività all’estero e per fare anche un eventuale “favore” alla comunità scientifica (qualora avessimo contratto il virus e avessimo sviluppato gli anticorpi, avremmo potuto essere di un qualche aiuto nell’avanzamento della ricerca di un vaccino).

Questo, per rimarcare l’importanza del sapere scientifico di chi ha operato nella diagnostica di laboratorio e la più generale necessità di affidarsi ai medici, di aver fiducia nella scienza e nella progressione della ricerca.

Tornando alla didattica… Da allora è passato un intero anno! Nel semestre scorso ho collaborato al laboratorio di “Sustainable Design and Performance” di cui i docenti titolari sono stati i prof. Aymonino, Latini e Marpillero. Si tratta di un laboratorio di I anno della laurea magistrale “Architecture"che accoglie prevalentemente studenti stranieri e che è stata appositamente strutturata per ampliare l’offerta di internazionalizzazione di Ateneo. Dei circa 60 studenti iscritti al corso, solo una decina erano italiani e hanno potuto seguire le lezioni in presenza: si trattava di un laboratorio e, essendo un corso di I anno, poteva erogarsi in presenza. Gli altri erano stranieri, di varie provenienze. Nelle varie settimane di corso abbiamo avuto al massimo una ventina di studenti in aula; tutti gli altri, collegati in remoto attraverso le piattaforme online (molti studenti stranieri non avevano potuto raggiungere l’Italia per ovvi motivi): così siamo riusciti a garantire un servizio, nel miglior modo possibile.

È chiaro che la didattica a distanza sia stata un’ottima soluzione tampone, in questa fase emergenziale. Ma l’auspicio è che si possa tornare il prima possibile alla normalità. Le aule e tutti gli spazi universitari ci sono sembrati troppo vuoti rispetto alla consuetudine.

È mancato il contatto diretto con gli studenti; i tempi si sono dilatati con ore e ore passati davanti a un monitor di computer spiegando e cercando di spiegare cose che, in condizioni normali, si sarebbero potute trasmettere con un rapido schizzo su un disegno stampato. Con il filtro del monitor è inevitabile che si stabilisca una distanza altrimenti colmata dall’interazione diretta.

Lo ripeto, vacciniamoci!

Mi pare l’unica strada percorribile per riguadagnare una normalità che ad oggi ci è negata.

E poi non lo nascondo… io che sono un viaggiatore, sento la mancanza del viaggio! Non vedo l’ora di poter riavviare la serie dei workshop internazionali dei “Laboratori Metropolitani” che, da dieci anni a questa parte, organizziamo. Ci hanno dato ottime occasioni di soddisfazione e di crescita personale. Sono parte delle “skills” del nostro gruppo di lavoro e credo che, tanto per noi quanto per i nostri studenti, siano un’occasione primaria di formazione avanzata: imprescindibile, come può essere guardare il mondo in presa diretta!».

martedì 6 Aprile 2021

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Tex willer
Tex willer
3 anni fa

Buon giorno beato lui che si è vaccinato ma certamente la cosa non dipende da noi poveri umani.Ad oggi dopo alcuni mesi di vaccinazioni qui a ruvo di puglia i medici di base non hanno ancora ricevuto i vaccini da somministrare agli anziani presso i propri domicili. Ora qualche uno vuole spiegarmi dove sta il dovere delle amministrazioni che predicano bene e nella sostanza dei fatti ruzzolano malissimo.Se gli anziani sono le persone più fragili come si fa a vaccinare quelle più giovani dimenticando coloro che ci hanno dato la vita cioè i nostri genitori? Due sono le cose o è in atto una vera teoria in cui volutamente non si vaccinano aspettando che qualche uno di loro muoia e si risparmia ,oppure chi decide in merito è un incompetente madornale che non sa nemmeno programmare.Ciao e saluti

Franco
Franco
3 anni fa

Certo che passare da un diritto a un dovere è difficile da spiegare. Specie se diritto e dovere (teorici) si scontrano con la realtà: la carenza di vaccini e l'inefficienza di chi deve garantire i diritti.

anacleto berardi
anacleto berardi
3 anni fa

scusatemi, non ce l'ho fatta a leggere tutto l'articolo … troppo lungo … dopo i primi dieci minuti ho dovuto mollare … comunque sono d'accordo con le vaccinazioni dei caregiver … in fondo io sono il caregiver di me stesso, nessun altro pensa a me. posso essere vaccinato un pò prima degli altri? per piacere?

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