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“Museo Jatta: tempio dell’identità cittadina”, il contributo del professor Antonio Iurilli

La Redazione
«​E speriamo non sia da temere neanche la disinvolta vocazione odeporica dei loro "pezzi" che il business dell'arte, non altro, oggi giustifica, e che qualche diffidenza in loro l'avrebbe creata»​​
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Riceviamo e pubblichiamo la riflessione “storica” del professor Antonio Iurilli sulle «attuali vicende che hanno nuovamente portato alla ribalta la sorte» del Museo Jatta: il trasferimento di 25 vasi della Collezione di Giovanni e Giulio Jatta al Castello Svevo di Bari per il tempo necessario ai lavori di ristrutturazione dello stesso Museo in piazza Bovio.

«“Mandatela al diavolo….”. Fu questo il cattivante titolo di una trasmissione televisiva confezionata dalla Rai di Bari all’inizio degli anni settanta del secolo scorso, appena nato il decentramento regionale della TV di Stato: un godibile precorrimento delle attuali “Striscia”, “Iene” e affini che imperversano oggi sulle reti commerciali. Il giornalista Costantino Foschini, pittorescamente abbigliato a diavolo, entrava, come il Belfagor machiavelliano, nei fatti che segnalava il pubblico (mandandoli appunto… “al diavolo”) per smascherarne, con verve ironicamente ‘diabolica’, le recondite verità.

Ho ricordato questo gustoso scampolo di protostoria della Tv regionale perché fra i primi temi che quella trasmissione inserì nel palinsesto, complice la mia giovanile amicizia con Foschini, fu una graffiante intervista all’allora sindaco di Ruvo Domenico Mastrorilli su un argomento che, come si vede in questi giorni nelle pagine delle principali testate on line cittadine, teneva e tiene ancora banco: la “sorte” del Museo Jatta, sul quale incombe da sempre, quasi biblica maledizione, una “genetica” fragilità che ne rende periodicamente controversa e incerta la vita (persino la sopravvivenza) e ne offusca la pur limpida, inequivocabile identità. L’intervista di Foschini al sindaco Mastrorilli non fu, infatti, che l’apice dialettico di una vicenda che veniva da più lontano, e che aveva coinvolto altre figure carismatiche del governo cittadino e della famiglia proprietaria della collezione, dai sindaci Michele De Venuto e Giovanni Bernocco, a Giovanni Jatta e ad altri discendenti, mentre sullo sfondo si muovevano le figure istituzionali competenti, e si imponeva il ruolo mecenatesco nientemeno di Aldo Moro.

Ma, rispetto a quella storia, presumibilmente nota, che celebra il suo apogeo (per molti la sua catarsi) nel 1993 con l’acquisizione allo Stato della collezione, ma che continua a narrare ancora oggi eventi controversi, vorrei, dantescamente, “tenere altro viaggio”, un viaggio che ci porti dentro quell’impareggiabile naos domestico nel quale Giovanni Jatta senior e Giovanni Jatta junior deposero il loro raffinato culto dei miti greci in totale sintonia con la loro sensibilità e con la loro cultura, che non era semplicemente quella di collezionisti dell’antico in un momento della storia culturale europea in cui l’antiquaria era uno status symbol, spesso naif ed estemporaneo, della borghesia ricca. Quale humus culturale ha nutrito, lungo quasi un secolo, la passione archeologica dei due Jatta? Qual è stato, al di là della pulsione tipica del collezionista di inseguire il valore onnicomprensivo e spesso ingenuo della rarità, il loro rapporto con l’antico?

Credo non si possa scindere l’antiquaria di Giovanni senior dalla sua formazione giuridica. La sua cultura forense, in forza delle quali egli liberò la sua città dalle angherie feudali della casa Carafa, fu, infatti, sì di matrice illuministica (decisivo fu per lui il magistero del prete giacobino Ignazio Falconieri), ma era ormai contagiata dal culto liberal-romantico della piccola patria, la cui capacità di affrancamento civile dall’oppressione feudale si nutre proprio della grandezza del suo passato. Negli anni in cui Giovanni primeggiava nel Foro di Napoli, l’archeologia partenopea accendeva quei furori patriottici e libertari che sarebbero sfociati nella rivoluzione del ’99, proprio in nome dell’antica grandezza greco-latina della Campania felix, ibridandosi col giacobinismo repubblicano.

Ed è proprio il bisogno di rivendicare la grandezza delle radici, insieme al ritorno ottocentesco alle “historie” municipali, a indurre Giovanni senior a scrivere la prima storia della sua città: quel Cenno storico sull’antichissima città di Ruvo, che non a caso si conclude con l’elogio del più illustre rubastino, Domenico Cotugno, suo prozio, celebrato non solo come genio della scienza medica partenopea, ma anche come raffinato collezionista di antichità, e anzi come nume tutelare del suo stesso iter antiquarium.

Questa religione laica dei Lari professata da Giovanni senior alle soglie della matura storiografia romantica lo porta, insomma, a concepire la storia della sua città come il costante affermarsi della sua antica nobiltà: una nobiltà di cui sono testimonianza proprio i monumenti fittili che le sue viscere restituivano in quegli anni nelle sue trepide mani. L’imago picta degli antichi figuli è, insomma, la rappresentazione figurale di quel sistema etico-religioso originario del quale egli saggia il radicamento nella storia millenaria della sua città e la tenuta nella società attuale.

L’esuberante mondo mitografico che egli contempla sui suoi crateri si fa allora Pantheon della memoria cittadina, monumento laico della sua storia, e lo induce a preferire il modello storiografico umanistico della laudatio urbis a quello agiografico-cattolico che identifica la grandezza della città con la fama del suo santo patrono. È anzi così forte in lui il bisogno di celebrare l’origine ellenica della sua città, da rendere diseguale l’ordito storiografico del Cenno storico, inducendolo a comprimere l’età romana (giudicata autoritaria e bellicosa), e persino quel Medioevo cui pure la sua città deve il suo monumento più bello: la Cattedrale.

Contagiato dalla cultura liberal-riformistica dello zio, Giovanni junior colloca Ettore Carafa, il feudatario convertito all’utopia repubblicano-giacobina fino a morirne, nella candida rosa dei beati che, sul modello dantesco, circondano in un paradiso tutto giacobino la Dea Libertà. Tutto questo in uno straordinario, sconosciuto poemetto che egli intitola ad Agesilao Milani, un ‘terrorista’ che aveva inutilmente attentato all’ultimo re Borbone, e che egli ammette nell’empireo giacobino guidato da Vincenzo Gioberti, simbolo del patriottismo cattolico-liberale professato dalla borghesia napoletana, mentre il ‘settario’ Mazzini vi è trattato come attentatore all’idea di nazione: un ‘estremismo’ ideologico che non ci saremmo aspettati da uno Jatta, ma che si nutre, come nello zio, del culto ellenico della libertà, quella libertà che egli accarezzava nella mitopoiesi (la tendenza dello spirito umano a pensare o a interpretare la realtà in termini mitologici, ndr), generata dalle storie figurate sui suoi crateri.

Ma quando Giovannino scrive queste cose, l’Unità nazionale è ormai compiuta e i suoi ardori liberali si sono già sciolti nella pax sabauda e nell’amenità del buen retiro di Parco del Conte. È lì che Giovannino traduce l’amorevole impegno ad accrescere la collezione affidatagli dallo zio in quel raffinatissimo catalogo che egli concepisce, con sorprendente modernità, come ecphrasis, come traduzione verbale dell’imago picta del mito, in forza di un grado di formalizzazione letteraria che rende la parola uguale, se non superiore, all’immagine, e in forza di un’armonia narrativa capace di trasmettere i valori pittorici della rappresentazione fittile, ma anche di coglierne più profondamente il messaggio etico e civile: una performance ecfrastica (descrittiva di un’opera d’arte, ndr) che lo Jatta ritiene perfino sostitutiva della fruizione visiva della collezione, quando essa è mortificata dagli spazi espositivi troppo angusti.

Questa aspirazione divulgativa del patrimonio fittile rubastino, che Giovanni intende conseguire attraverso la forza icastica della parola, fa tutt’uno con la rivendicazione, ormai postunitaria, dell’identità magnogreca della sua città, pur nel quadro condiviso di un nazionalismo sabaudo non proprio tenero, come sappiamo, verso i municipalismi, specialmente meridionali. Non è allora un caso che Giovanni sottolinei l’ipertrofica presenza del mito di Teseo nella produzione fittile rubastina: la presenza, cioè, di un mito che «si rendeva un soggetto eminentemente nazionale» in quanto «abolì la tirannide, stabilì la democrazia, liberò la patria dal servile tributo dagli Ateniesi pagato a Minosse». E non è un caso che concluda: “Ora, il vedere quel mito con tanta frequenza espresso sui vasi di Ruvo, costituisce un altro non lieve argomento dell’origine attica di questa città, le quali cose tutte provano senza dubbio un sentimento profondo della propria antichità in un popolo che trasmette da una generazione all’altra consimili tradizioni”. Un modo culturalmente raffinato di rivendicare l’identità libertaria e antitirannica della sua piccola patria al cospetto dei nuovi ‘conquistatori’ sabaudi, sia pure ammantati del tricolore.

Forse non c’è motivo oggi di temere altro genere di “conquistatori” indifferenti a questa consustanzialità della collezione con il tratto identitario della piccola patria rivendicata proprio da chi quella collezione l’ha creata. E speriamo non sia da temere neanche la disinvolta vocazione odeporica (a viaggiare, ndr) dei loro “pezzi” che il business dell’arte, non altro, oggi giustifica, e che qualche diffidenza in loro l’avrebbe certamente creata. Ma in un ennesimo momento di svolta (sulla carta solo infrastrutturale e “tecnico”) della storia secolare del “nostro” Museo, forse sarebbe invece il caso di valutare se quelle sobrie sale, quella essenziale boiserie, quelle discrete poltrone di velluto porpora sulle quali i padroni di casa intrattenevano Gregorovius e altri illustri visitatori di tutta Europa, possano oggi resistere a una categoria più subdola di ‘conquistatori’: quelli che a frotte spesso scomposte, invadono, in nome di una pur auspicata offerta turistica di massa, quel tempio: quel tempio che, forse con un pizzico di narcisismo, gli Jatta avevano eretto per viverlo, come Leopardi viveva nottetempo la biblioteca domestica, nella voluttosa solitudine del collezionista avidamente compiaciuto di accarezzare i suoi pezzi; ma anche perché quel tempio ammonisse (questo vuole dire la parola “monumento”) i concittadini al rispetto del loro grande, vincolante passato che affiorava grazie a loro dalle viscere della loro terra, un passato figlio di quegli Ateniesi che si erano saputi liberare dalla tirannide di Minosse».

venerdì 27 Novembre 2020

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