Cultura

“Il Dantedì nel Bel Paese dove l’Ok suona”: saggio del prof. Antonio Iurilli dedicato al Sommo Poeta

La Redazione
«Anche la Divina Commedia è piena di prestiti dai vari dialetti italiani. Ma ognuno di essi è una "perla" poetica che Dante incastona nel gioiello linguistico che era il suo Fiorentino, diventato la lingua italiana»​
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Oggi, 25 marzo, è il Dantedì, la Giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri, istituita nel 2020, durante la quale il mondo omaggia il Sommo Poeta con una serie di iniziative.

Secondo gli studiosi oggi è il giorno in cui Dante Alighieri, «nel mezzo del cammin di nostra vita», intraprende un viaggio nell'Aldilà, attraversando l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso per la salvezza della propria anima. Un percorso interiore riccamente descritto nella "Divina Commedia".

Quest'anno, poi, la ricorrenza, è maggiormente significativa perché cade nel 700esimo anniversario della morte di Alighieri, padre della lingua italiana.

Il professor Antonio Iurilli ha dedicato alla ricorrenza un piccolo saggio in cui riflette sull'uso – a volte soverchio – degli anglicismi o di parole in altre lingue nonostante il vocabolario italiano sia più ricco di sfumature e più "musicale".

«Anche i più distratti e i più indifferenti alla cultura letteraria nazionale – scrive il Professore – si sono dovuti accorgere in questi giorni che il 25 marzo è il giorno che l’Italia dedica a Dante nel compiersi del settecentesimo anno dalla sua morte. È il Dantedì.

A rendere mediaticamente vistosa la ricorrenza ci ha pensato la Rai, annunciando per questo giorno l’ennesima performance dantesca di Roberto Benigni, e non è difficile immaginare quanto aggio faccia un minuto dell’istrionica (ma non per questo meno colta) lettura dantesca del Comico nazionale per antonomasia, sulle ore, sui giorni, sulla vita dedicati a Dante dagli studiosi di tante generazioni.

Non vuole essere, questa, una nota polemica. La sua fortuna televisiva è anzi la prova che, settecento anni dopo, Dante ancora conta nella memoria collettiva della Nazione, al netto dei vincoli didattici, in verità sempre più blandi, che lo impongono come imprescindibile oggetto di studio. Come nessun altro, Dante riesce insomma ad essere ancora "autore pubblico", esattamente come lo era settecento anni fa, quando Boccaccio, pochi anni dopo la sua morte, lo leggeva pubblicamente nella chiesa di Santo Stefano in Badia, tentando così di lenire il rimorso dei fiorentini per averlo esiliato da vivo con accuse infamanti, e per non poterne custodire le spoglie. Anche questo, del resto, è un aspetto dalla sua vita emblematica che suona ancora come monito alla coscienza collettiva: che talvolta i pubblici poteri non hanno le qualità morali e civili necessarie e cogliere in tempo il valore di un concittadino illustre, prima che a lui restituisca giustizia la memoria postuma. Chapeau, dunque, a un’Italia che si inchina ancora una volta a chi ha contribuito a farla Nazione usando il calamo al posto della spada.

Le occasioni centenarie servono in fondo a questo: a documentare la tenuta nel tempo di un autore, a testare la vitalità del suo messaggio, ma anche (direi anzi, soprattutto) mirano a documentare ciò che di quell’autore sopravvive nella sensibilità delle generazioni che gli succedono, di quelle generazioni che, nutrite da una diversa temperie storico-culturale, si avvicendano nel tempo intorno alle sue opere decretandone l’attualità e la modernità. Le occasioni centenarie sono, insomma, al di là delle effimere kermesses mediatiche che le condiscono, momenti importanti di bilanci culturali.

Ora, uno dei punti di forza del mito "nazionale" di Dante è sicuramente il suo ruolo decisivo nella costruzione di una "lingua degli Italiani", un’aspirazione che egli concentra nel bellissimo, celeberrimo verso “Il bel paese là dove ’l sì suona” (Inferno XXXIII), e che si traduce nel progetto di unificare i tanti volgari regionali, riflesso linguistico del frazionismo che segnava e che avrebbe per secoli segnato la geografia politica dell’Italia. Un’idea che il Risorgimento trasvalorò in un mito accreditandola come precorritrice della sua aspirazione all’unità politica della Nazionale, un mito fortemente voluto e costruito persino a dispetto di quanto documenta la storia della nostra lingua: che dal Cinquecento in poi sono stati Petrarca e Boccaccio i modelli della lingua letteraria nazionale, e che Dante è stato emarginato in quanto scrittore eccessivamente "municipale".

Sta di fatto che quel mito di Dante padre della lingua italiana, nutrito degli ardori romantico-patriottici dell’Ottocento che lo riconoscevano paladino laico della libertà, ha attraversato indenne il magma ideologico del Novecento ed è ancora vivo nella complessa cultura linguistica del nostro tempo globalizzato, che si appresta, appunto, a rinverdirlo nella memoria centenaria.

Quel mito corre in questi giorni sulle labbra politicamente indistinte di numerosi esponenti della nomenklatura istituzionale italiana, a cominciare da quelle del Presidente della Repubblica, tutte concordi nel riaffermare solennemente, nel nome di Dante, l’identità linguistica della Nazione, sottintendendone persino un primato europeo.

Quelle stesse istituzioni, in anni non lontani, sono rimaste indifferenti all’agonia dell’Accademia della Crusca, secolare baluardo di difesa della lingua nazionale, privato del sostegno finanziario pubblico. Un baluardo, si badi, eretto a difesa non di un anacronistico purismo preclusivo di ogni contaminazione (che vuol dire dialogo) con le altre lingue, come la risibile autarchia linguistica che il Fascismo oppose per ragioni politiche alla “perfida Albione”, ma un baluardo eretto a difesa, appunto, di quella identità che una lingua costruisce faticosamente sedimentandosi nell’uso rispettoso di una storia e di una tradizione, che è tradizione di valori fonici, lessicali, semantici radicati nel popolo e nobilitati dal suo patrimonio letterario.

Ma c’è di più. Quelle stesse istituzioni pubbliche sono ormai da tempo complici, a vari livelli, dell’imbarbarimento della lingua italiana prodotto dalla incontrollata anglofilia lessicale che imperversa nella comunicazione, soprattutto pubblica, e che viene rozzamente opposta alle naturali, immense risorse della lingua nazionale. Che sotto i padiglioni delle due assemblee legislative nazionali e nella voce dei cronisti della televisione di Stato risuoni la locuzione question time per indicare "il tempo delle domande", come se a Montecitorio si riunisse il Parlamento del Regno Unito; che in ogni angolo della vita pubblica e in ogni pagina dell’informazione imperversino oggi parole forzosamente imposte all’uso collettivo come lockdown, vaccine day, cashless, recovery fund, parole peraltro pronunciate all’amatriciana, è il segno di un colonialismo culturale, di una sudditanza psicologica, di una pigrizia culturale che non giovano a un popolo depositario di una grande lingua di cultura e di una straordinaria tradizione letteraria. È una deriva linguistica che rischia di inquinare irreversibilmente il rapporto delle nuove generazioni con la propria lingua madre.

Intendiamoci. Non è questa la rivendicazione di una sorta di sovranismo linguistico, che avrebbe meno senso del sovranismo politico in un mondo globalizzato che ha visto realizzarsi nell’uso globale della lingua inglese l’antica aspirazione a una lingua universale, a lungo coltivata come utopia. Ma "le lingue" non devono soccombere alla "lingua". Ce lo ha insegnato proprio il secolo che ha inaugurato la modernità. Ce lo ha insegnato quel Settecento illuminista che ha ospitato le più grandi rivoluzioni dell’evo moderno e che ha rispettosamente mandato in pensione il Latino, per secoli lingua universale della scienza, sostituendolo progressivamente con le lingue nazionali proprio quando la scienza iniziava a diventare globale nella Repubblica delle Lettere imponendosi come formidabile macchina trasformatrice dei rapporti umani. Salvo poi a favorire un dialogo serrato fra le lingue in nome di una diversità che è risorsa, non ostacolo alla reciproca crescita: una diversità che si materializza nei "prestiti", laddove essi sono necessari.

Anche la Divina Commedia è piena di prestiti dai vari dialetti italiani. Ma ognuno di essi è una "perla" poetica che Dante incastona in quel gioiello linguistico che era il suo Fiorentino e che egli stava faticosamente plasmando arricchendolo là dove gli sembrava povero: quel Fiorentino che è diventato la lingua italiana.

I Francesi, che non hanno avuto Dante, ma hanno inventato il concetto di Patria, hanno saputo resistere persino all’anglismo più pervasivo della nostra civiltà: a quel computer che essi si ostinano, giustamente, a chiamare ordinateur.

Una regolamentazione dei nostri costumi linguistici pubblici sarebbe certamente un dono che Dante apprezzerebbe, e si sentirebbe ancor più vivo, settecento anni dopo, se, al di là delle celebrazioni in suo onore velate di ipocrisia, nel suo “Bel Paese” tornasse a “suonare il sì” invece dell’ok.

giovedì 25 Marzo 2021

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S. C.
S. C.
3 anni fa

Concordo pienamente con l'analisi del prof. Iurilli, troppi anglicismi e termini deformati che depauperano la nostra meravigliosa lingua. Basta misurare la proprietà di linguaggio di molti politicanti, riflesso dell'opera di smantellamento della cultura italiana. Sentire poi, via radio, la Meloni che legge Dante mi ha rattristato ulteriormente. Saluti dall'Austria, dove sto studiando la terza lingua straniera.. E insegnando un po' di italiano!

L.L.
L.L.
3 anni fa

Complimenti al prof.iurilli per la sua esauriente relazione per la difesa della nostra lingua