Cultura

“La quarantana al tempo della pandemia” secondo il professor Antonio Iurilli

La Redazione
Nel saggio scrive: «Mi fa immaginare un'idea di Pasqua radicata nell'operoso, discreto, silenzioso genotipo cittadino, che lo fa esplodere festosamente una volta l'anno e lo promuove a segno corale di fiducia nel futuro»
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Uno dei "riti pasquali" legati al folclore ruvese ed espressione della fusione tra paganesimo e cristianesimo è l'esplosione della Quarantana a Pasqua.

Al passaggio della statua del Cristo Risorto, portata in processione, il fantoccio dalle sembianze di una vecchia signora in gramaglie, simbolo della Quaresima e della penitenza, esplode tra mortaretti e viene consumato dalle fiamme. Dalla direzione che il vento imprime alle stesse, gli agricoltori traggono pronostici per la prossima annata.

Ma, a causa del perdurare della pandemia Covid dal 2020, questo rito non si terrà anche quest'anno.

A questo proposito, il professor Antonio Iurilli dona ai nostri Lettori un piccolo saggio, "La quarantana al tempo della pandemia", con un augurio speciale.

«Ali di Levante, il magazine edito da Aeroporti di Puglia – scrive -, mi ha fatto spesso discreta compagnia nelle molte ore passate in volo prima che la pandemia mi mettesse, come si dice in gergo, a terra. Le sue pagine eleganti raccontavano ai lettori cosmopoliti che ne trovavano copie nell’aeroporto di Bari, una Puglia rampante, sempre più consapevole di essere un molo proteso in un “fiume salato” (l’Adriatico di Magris), vocato, come deve essere un molo, ad accogliere approdi e a mediare l’osmosi culturale fra un Occidente carico di antica gloria e un Oriente contraddittorio protagonista del futuro: in quel grembo liquido di grandi civiltà che è il Mediterraneo.

Ma quelle pagine raccontavano anche una Puglia fascinosamente sospesa fra tradizioni e modernità. Raccontavano una terra seducente e ottimista, in cui è bello arrivare, in cui è bello stare, in cui è ancora possibile immaginare un tempo a misura d’uomo, in cui si fa carne il verbo dello sviluppo sostenibile.

Di quelle pagine me ne sono tornate alla memoria, proprio in questi giorni di segregazione resa più crudele dall’assenza dei "nostri" riti quaresimali, alcune che, in un anno non lontano, sotto un titolo allettante (I colori della Passione), raccontavano proprio la Settimana Santa pugliese, riannodando con sicuro gusto comunicativo l’armonia fonocromatica che la segna e i tanti umori culturali che le scorrono dentro: pagani, cristiani, normanni, arabi, spagnoli.

Divorai naturalmente quelle pagine con l’avidità sciovinistica di leggere il mio paese fra quelli eletti a rappresentare quel momento, forse il più alto, sicuramente il più "turistico", della vita culturale della Regione. Ma scoprii che l’autrice del pezzo, coerente col titolo impostogli (I colori della Passione), aveva preferito coniugare i cupi teatri ambulanti della Passione pugliese con i colori del mare, privilegiando i riti delle città costiere e riservando all’entroterra solo qualche rapsodica incursione nei luoghi ormai canonici di una collaudata oleografia quaresimale della Regione, che escludeva Ruvo.

La mia prevedibile delusione durò tuttavia poco, perché Ruvo c’era e il pezzo le riservava, nientemeno, le sue ultime, come sempre le più intense, righe. Quelle righe, però, non celebravano l’imponente severità dei suoi riti quaresimali, ma raccontavano il festoso tripudio del suo giorno di Pasqua, e rappresentavano al mondo che si muove nell’etere, con colorita meraviglia, le quarantane ridotte in brandelli infuocati sui patiboli sospesi ai crocevia centrali della topografia urbana. Raccontavano il non comune recupero spettacolare, nelle strade della mia città, di uno straordinario ibrido culturale fra le gioiose liturgie palingenetiche della tradizione pagana e la sadica esultanza popolare per i roghi cristiani riservati alle streghe. Raccontavano, insomma, quelle quarantane come fantocci ambiguamente carichi di simboliche allusioni a un istintivo bisogno di rinascita e a un macabro rituale collettivo di repressione del peccato.

Fu allora che alla delusione subentrò un compiaciuto stupore. Mi sembrò che quelle poche righe mediatiche di promozione turistico-culturale della Puglia, celebrando quel rito, eleggessero la mia città a simbolo antonomastico regionale del primitivo e fondamentale valore identitario della Pasqua: il valore della rinascita.

Vinco quindi l’immediata tentazione di soffocare in una smorfia di ironica sufficienza questa mia vanitosa interpretazione di una tradizione paesana neanche tanto antica, e mi scopro invece a dedurre un non so che di ottimisticamente profetico da quella breve nota di folklore, destinata a finire sotto gli occhi di lettori di tutti i continenti. Mi colgo, cioè, a sperare che quella occasionale identificazione della rinascita pasquale con un rito popolare della mia comunità cittadina voglia inconsapevolmente additare una sorta di impegnativo destino della mia città a incarnare quell’ansia di rigenerazione che fa fremere questo nostro tempo angoscioso, l’ansia di una terra che proprio il rito trasforma in cifra assoluta e universale di rivincita. Mi fa immaginare, insomma, un’idea di Pasqua radicata nell’operoso, discreto, silenzioso genotipo cittadino, che lo fa esplodere festosamente una volta l’anno e lo promuove a segno corale di fiducia nel futuro.

La mente corre allora ai giovani, ai tanti pronti a fare le valigie, e alla speranza di averli complici di queste mie non giovanili fantasticherie, destinatari eletti di un messaggio di rinascita veicolato da un rito paesano forse snobisticamente da loro ignorato. E provo a immaginarli criticamente distanti da quel sistema di comunicazione virtuale che oggi più che mai li irretisce in uno scambio fittizio, incapace di vincere la loro solitudine mentale e fisica, e che costituisce un’ingannevole via di fuga dalla complessità di questo tempo, una complessità che va affrontata forti di ben altre risorse intellettuali e civili, sicuramente più impegnative, ma più efficaci: a cominciare dal dialogo, motore storico delle svolte nelle grandi civiltà dell’Occidente, che si nutre di incontri, di dialettica viva e reale, non virtuale, che si consuma in luoghi reali, magari appartati e silenziosi, all’interno dei quali poter misurare, per differenza, il vuoto frastuono dei luoghi del rumore spacciato per musica, o l’ebete silenzio dei luoghi della movida, perfidi antidoti, entrambi, a ogni serio tentativo di elaborazione del pensiero.

Cercare o creare quei luoghi reali di incontro in una dimensione paesana oggi più che mai incline alla deriva della rassegnazione non è facile. Ma vincere quella rassegnazione deve diventare bisogno primario di una società giovanile matura, chiamata a gestire una svolta epocale non solo nella produzione e nella organizzazione del lavoro, ma anche nel soddisfacimento dei bisogni sociali legati ai mutamenti biologici della vita, a cominciare dalla sua durata: con un cultura, ma soprattutto con una sensibilità diverse che nascano dall’emozione dei sensi e dalla riflessione dell’intelletto. Il nostro tempo difficile non può essere vissuto all’insegna dell’indifferenza e della rassegnazione, che spesso si nasconde dietro il silenzio assordante di tanta comunicazione virtuale o dietro l’appagante ritualità vitellonistica di provincia.

Allora bruciamo, con la quarantana, anche l’indifferenza, fieri di credere che il nostro paese, sia pure in forza di un rito esaltato da un messaggio mediatico, possa assurgere, nell’immaginario collettivo, a luogo eletto dell’utopia rigeneratrice della Pasqua: anche se, come si sa, luogo e utopia formano un incompatibile ossimoro. Ma è un ossimoro bellissimo, in cui vale la pena credere, specialmente in questi giorni avvolti di nebbia, ma irradiati dalla trepida e incerta luce di un’alba, che non può mancare».

domenica 4 Aprile 2021

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Enza de Cegliai
Enza de Cegliai
3 anni fa

Testo bellissimo!

Marco
Marco
3 anni fa

In realtà ormai non siamo neppure liberi di scegliere in quale chiesa andare, siamo costretti ad andare nella più vicina. La nostra libertà di culto è stata gravemente compromessa attraverso un semplice Dcpm amministrativo.

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